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giovedì 3 febbraio 2011

Il Sussurro Dell'Infinito

IL SUSSURRO DELL’INFINITO

Il soldato se ne stava fermo sulla soglia, aspettando la risposta dell’uomo che sedeva alla scrivania di legno, al centro di quell’aula grande e fredda. Il Dottor Schulz fece un cenno d’assenso con la testa, le labbra e gli occhi composti in un’aria glaciale. Il soldato se ne andò. Il Dottor Schulz rimase in attesa, scarabocchiando vagamente sul foglio che aveva dinanzi. Fuori della finestra, le nubi grigie vorticavano nel cielo. “SCHNELL! SCHNELL!”. Cinque minuti dopo il soldato fu di ritorno. Dietro di lui si apriva una fila di una ventina di uomini magri e smilzi, i capelli rasati a zero, i vestiti a righe tutti uguali e laceri. Il Dottor Schulz storse il naso, mentre la fila dei miserabili si dispiegava davanti a  lui, terrorizzata dalle urla di altri tre soldati che comandavano in un tedesco sgarbato e ostile di fare in fretta. “SCHNELL! SCHNELL!”. Gli uomini eseguivano senza fiatare, in silenzio, i volti ridotti a maschere di dolore dagli occhi spenti. Sembravano non avere anima, nulla che li distinguesse l’uno dall’altro. Ciò che avevano di diverso era soltanto il numero che portavano cucito sul petto. Il Dottor Schulz si alzò dalla scrivania, facendo ondeggiare appena la bandiera nazista alle sue spalle. Gli occhi dei prigionieri si posarono su di lui, animati da un’improvvisa tensione. Con un cenno della mano, il Dottore ordinò al suo segretario di avvicinarsi. Un uomo alto e slanciato fu subito al suo fianco, una cartellina di plastica in mano. Il Dottore si avvicinò al 723. L’uomo si sbottonò la camicia infangata e mostrò il suo petto smagrito. Il Dottore lo visitò in silenzio, senza degnarlo di uno sguardo, senza dire nulla. Il silenzio regnava lugubre nella stanza. Dopo un po’, il Dottor Schulz borbottò qualcosa ai soldati. Questi si avvicinarono in fretta al 723 e lo trascinarono di peso fuori. L’uomo lanciò un urlo di supplica disperata, ma il Dottor Schulz era già concentrato sul 724. La raffica che venne da fuori echeggiò spaventosa. I prigionieri rabbrividirono appena. Passò una terribile mezz’ora. La fila dei prigionieri si riduceva lentamente. Molti altri furono condannati a morte per  la loro fragile salute; pochi superarono la visita. Il Dottor Schulz arrivò all’ultimo prigioniero, il 747. L’uomo era poco più alto di lui. Senza fiatare si spogliò e si lasciò visitare. Il Dottore procedeva lentamente, come aveva fatto con tutti gli altri. Improvvisamente si accigliò e riservò un’occhiata furente all’uomo. “Was ist da?” ( “Cosa è questo?”) . Così dicendo, gli strinse il braccio e glielo sollevò. Il prigioniero trattenne il respiro, mentre i suoi occhi piccoli e lucenti si posavano sulla stella a sei punte che portava legata al polso con una catenina. Sentì mozzargli il respiro e non impallidì perché il pallore della sua pelle aveva raggiunto il suo grado massimo durante quell’anno nel campo di concentramento. “Non portarmela via” sussurrò al Dottore. Il Dottore Schulz si voltò di scatto verso di lui. I loro occhi si incrociarono. “Sei italiano?” chiese il Dottore, accigliato. “Sì..”. Gli occhi del prigioniero si schiusero in un tiepido sorriso. “Come ti chiami?” continuò il Dottore, in un italiano marcato dall’accento tedesco. “Davide”. Il Dottor Schulz stringeva ancora il suo braccio. “Ti prego” sussurrò ancora Davide, in modo che solo lui potesse sentirlo. “Non portarmi via questo ciondolo. È l’unico ricordo che ho di mia madre. Ho fatto di tutto per nasconderlo ai vostri occhi”. Il Dottor Schulz lo fissò con sguardo indecifrabile, mentre una strana cosa nello stomaco si agitò. “Was passiert, Herr Schulz?” (“Cosa succede, Signor Schulz?”). Il segretario si era avvicinato, notando quello strano movimento. Il Dottor Schulz lasciò cadere il braccio di Davide e agitò la mano in direzione del segretario, intimandogli di non avvicinarsi. “ Lui resta con me” disse poi ad un soldato che capiva abbastanza l’italiano. “Potete andare”. I soldati uscirono dalla stanza con i pochi superstiti, lasciando soli Davide e il Dottor Schulz. “Mia madre era italiana” disse questi. Davide restava a testa bassa, in attesa di un qualcosa. “Io mi chiamo Heinrich” continuò il Dottor Schulz. Davide alzò lo sguardo su di lui, sorpreso che un Tedesco gli si stesse rivolgendo in un modo…umano. “E così quello era di tua madre?” chiese Heinrich, indicando la stella a sei punte. Davide prese il ciondolo tra le mani. “Sì”. Silenzio. Heinrich fissava Davide. Qualcosa nello stomaco si agitò ancora nell’osservare meglio i vestiti laceri ai suoi piedi e il corpo scheletrico dell’uomo. “Tua madre è in Italia?”. Davide abbassò il capo e strinse la stella a sei punte tra le dita. “No” rispose con voce roca. “Stava nel reparto femminile. È morta un mese fa”. Heinrich abbassò anche lui lo sguardo, senza sapere cosa dire. Improvvisamente il silenzio fu interrotto da degli strani singhiozzi. Heinrich alzò lo sguardo per vedere Davide tremare e cadere in ginocchio, le lacrime che gli scivolavano sul petto. Gli diede le spalle e si voltò immediatamente verso la bandiera nazista. “ Mi spiace” disse, cercando di assumere un tono neutro. Davide tacque. “Vèstiti” ordinò poi Heinrich, sempre senza voltarsi. Sentì Davide alzarsi e indossare di nuovo la sua misera divisa. “Hai fratelli o sorelle?” si informò ancora. “No” rispose Davide. “Mia madre era tutto per me”. Il bruciore allo stomaco si fece sentire ancora di più e Heinrich fu trascinato dai ricordi.
Ritornò ad una fredda sera di dieci anni prima, in uno studio caldo e tappezzato di libri. “State sbagliando tutto, Heinrich” gli stava dicendo una donna dai soffici capelli grigi. “No, mamma. Questa è la cosa giusta!”. La signora Schulz era seduta sulla poltrona dinanzi alla scrivania, mentre suo figlio guardava fuori della finestra dandogli le spalle. “Tuo padre non si è spaccato la schiena per farti diventare un suddito della violenza” disse la donna, quasi in lacrime. “Non pensi a cosa direbbe se ora fosse qui?”. “Mamma, adesso sono altri tempi. Papà avrebbe capito sicuramente. Hitler ci sta portando verso una nuova Germania”. “Follie!” commentò la donna, scuotendo la testa. “Come si può arrivare al progresso dell’uomo attraverso la distruzione di un altro uomo?”. Heinrich si voltò verso di lei con sguardo glaciale. “Gli Ebrei non sono uomini, mamma” ribattè. “NOI siamo uomini. Noi siamo i migliori”. La madre tuffò il viso tra le mani. “Come puoi dire queste cose? Come puoi?” singhiozzò. “Dove è finito il mio bambino generoso? Dove è finito il suo amore per l’altro, il rispetto dei suoi sentimenti, la comprensione per il suo dolore?”. Heinrich non rispose. Era seccato. “Adesso ho da fare, mamma” disse. La donna si alzò lentamente dalla sedia. “Ti prego, Heinrich” lo pregò ancora. “Ti prego. Non dimenticare quello che ti ho sempre detto…”. E poi, curva nelle sue spalle, lasciò la stanza assieme al suo dolore. Quella fu l’ultima volta che Heinrich vide sua madre.
Heinrich teneva ancora fissi gli occhi sulla svastica. Per la prima volta provò un senso di disgusto. Cosa stava facendo? Cosa aveva fatto? Si sentiva mancare il respiro. Il volto di sua madre in lacrime gli brillava dinanzi. Come aveva potuto ferirla? Come aveva potuto perdersi nel Mondo e dimenticare che le cose più importanti erano ben altre nella vita? L’Amore, l’amore… “Davide!” esclamò improvvisamente, facendo sobbalzare l’uomo dietro di lui. “Vieni con me!”. Lo prese per mano e lo trascinò fuori la stanza. Si trovarono all’aria aperta. Pioveva. Grosse, fredde gocce di acqua gelata li inzupparono in pieno. “Dove mi porti?” chiese Davide, senza capire, trascinato dalla folle corsa di Heinrich. “Verso la libertà” rispose Heinrich. Un tuono squarciò il cielo, mentre la pioggia cadeva sempre più fitta. Dei cani ulularono in lontananza. “Se ti vedono…” fece Davide lasciando la frase a metà, mentre Heinrich lo guidava tra le file di baracche com i capelli appiccicati in fronte. Correva, correva…Heinrich non riusciva più a fermarsi. Solo sua madre brillava davanti a lui. L’amore, l’amore… Arrivarono dinanzi al filo spinato che recintava il campo Tremando di brividi di freddo, Heinrich prese subito un martello posato lì per terra e cominciò ad usarlo con tutte le sue forze contro quel muro. Davide rimase impalato per un po’, guardandosi ansioso intorno. Poi notò anche lui un piccone poco distante. “Ti aiuto” disse sorridendo ad Heinrich, barcollante sotto la pioggia e la sua debolezza. Il Tedesco e l’Ebreo unirono le loro forze e ben presto il muro che li divideva dal mondo fu abbattuto: tra le spine si era aperto un varco. “Ecco fatto” sospirò Heinrich lasciando cadere il martello. Un tuono echeggiò ancora più forte nel cielo. Davide fissava il varco incantato, come se stesse immaginando ciò che poteva aspettarlo dall’altra parte. Era una sensazione bella, ma gli faceva anche paura. “Cosa aspetti?” disse Heinrich. “Vài! Presto!”. Davide alzò lo sguardo di lui e, per la prima volta dopo mesi, il suo volto fu incendiato da un luminoso sorriso. “Grazie…”. Per la prima volta dopo anni, il volto di Heinrich fu preso anche lui da un sorriso. “Abbi cura di te” sussurrò l’uomo che era stato il Dottor Schulz. Così dicendo si avvicinò a Davide e lo strinse in un veloce abbraccio. “WAS MACHT IIHR?” (“COSA STATE FACENDO?). Heinrich e Davide si staccarono in fretta, terrorizzati. Un gruppo di cinque soldati li aveva circondati, i fucili puntati. Gli occhi di tutti e cinque si spostarono sul varco nel muro di spine. “Herr Schulz!” esclamò sorpreso un soldato che riconobbe il Dottore. Heinrich deglutì. “SCAPPA” urlò a Davide. I soldati si agitarono appena, non capendo cosa volesse significare quel grido in italiano. Davide era paralizzato dalla paura. “SCAPPA!” ripetè Heinrich con più forza, piantando lo sguardo su di lui. Davide restò per un attimo immobile. Poi, come preso da una forza invisibile, diede le spalle ai soldati e corse oltre il varco. I soldati presero ad urlare e subito soffiarono proiettili nell’aria. Davide correva, per quanto il suo fisico esile glielo permettesse. Miracolosamente schivava ogni colpo. Heinrich lo guardava impietrito allontanarsi, pregando che non fosse ferito. “Via, Dottore!” gridò un soldato, che lo spinse per prendere la mira con un fucile da precisione. Heinrich sentì il cuore salirgli in gola: Davide sicuramente non si sarebbe salvato. Il soldato era pronto, il dito stava per scivolare sul grilletto…Davide correva…mancavano pochi passi ai primi alberi della foresta… BAM. Il proiettile partì. Il soldato lasciò cadere il fucile, orripilato. Il Dottor Schulz giaceva lì, davanti a lui, lungo la traiettoria che il proiettile avrebbe seguito per arrivare a Davide. Heinrich sentiva un dolore al petto, mentre qualcosa di caldo gli inzuppava i vestiti. Faceva male, molto male. Tutto cominciava a vorticare. Ma era contento. Vide sua madre sorridergli in lacrime, contenta. “Sì, mamma” sussurrò lui, con voce flebile. “L’ho fatto! Hai visto? Ce l’ho fatta…”. Sorrise. Per la prima volta nella sua vita aveva compiuto un gesto d’amore verso un altro essere umano. Verso quell’Ebreo che il suo mondo gli aveva insegnato ad odiare. “Abbi cura di te, Davide” sussurrò ancora. Tutto vorticò paurosamente..La pioggia batteva feroce sopra di lui. I soldati lo guardavano con disprezzo. Ma non importava… Sua madre era accanto a lui e gli tendeva le braccia.

Molti anni dopo,Davide, nella sua vecchiaia,lasciò scritta questa frase per i suoi nipoti: “Non tutta l’Umanità è da gettare nel fuoco. C’è ancora speranza, qualcosa che si agita dentro di lei. Siate bravi da aiutare l’altro a portare fuori la Luce. Il Male non porta a nulla. Ricordatevi che siete uomini! Non dimenticate che dentro di voi vive qualcosa di più grande di voi…” 

MARIANO SERVADEI 

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