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domenica 4 dicembre 2011

DAL PROFONDO DEL CUORE

Ragazzi, ho deciso di pubblicare a puntate sul Blog i capitoli del mio romanzo DAL PROFONDO DEL CUORE edito il 20 Marzo 2011 da Davide Zedda editore...Buona Lettura!!!!


Il Cuore è la prima parte di te che nasce nel grembo di tua madre.
 È l’inizio, il segno che la tua Vita sta cominciando.
È la casa della tua esistenza.
Lì sono racchiusi gioielli di gioie e speranze, ma anche ragnatele e polveri di sconfitte e amarezze. Non puoi far finta che questo non esiste. Non puoi chiudere le porte delle stanze: più cerchi di chiuderle con forza, più ti si aprono inghiottendoti. E ti perdi. Ama quella casa! Amala fino in fondo! Perché solo ascoltando bene gli echi del suo profondo impari a vivere e trovi te stesso. Anche tra la polvere e il buio.





























Non siamo mai soli...

































1.   


“ Sono a casa”.
Anna Lorenzi si fece scivolare dalle spalle lo zaino Seven nuovo fiammante e appese le chiavi ad un gancetto dietro la porta d’ingresso. Si avviò verso il largo corridoio su cui davano cinque porte in tutto. Superato l’elegante portaombrelli, varcò la prima porta sulla destra. La cucina color pesca era intrisa di sole, che si fiondava dall’unica finestra aperta sul tavolo di marmo, sulle mensolette cariche di pupazzetti colorati e sul bancone da cucina accanto al frigo che portava il peso di un televisore ultimo modello. Stranamente, in quel momento l’aggeggio era spento.
Anna restò impalata sulla soglia, stupita al silenzio che si era trovata dinanzi. Di solito a quell’ora erano tutti in cucina: suo padre che leggeva il giornale; sua madre ai fornelli: Carlo, il suo fratellino di otto anni, che si concedeva assaggi furtivi di qualche buon piatto che sarebbe stato servito a tavola. Eppure, ora, non c’era nessuno.
“Dove diamine sono?” si chiese accigliata, dando le spalle alla cucina e ritornando in corridoio. Si affacciò in camera di suo fratello, ma c’era solo il letto ben ordinato con il pc muto e la torre di WHS della Disney accanto all’armadio. Perplessa, provò a bussare alla porta del bagno, ma non ricevette risposta. Impossibile che non ci fosse nessuno, altrimenti sua madre le avrebbe detto di aspettarla da zia Nilde, come aveva fatto altre volte.
 “Ehi, ma dove siete?” domandò allo specchio che occupava la parete alla fine del corridoio. Una ragazza dai capelli corvini legati in una coda, con grandi occhi verdi che brillavano su un volto roseo e sottile, le ricambiò la stessa occhiata pensosa. Anna aprì la porta della stanza accanto allo specchio. Sarebbe stata completamente immersa nel buio, se dei timidi raggi di sole non avessero filtrato le pesanti tende di lino con angeli ricamati in oro. Al centro della stanza, un enorme letto in ferro battuto troneggiava di fronte ad un gigantesco armadio dalle ante a specchio. Ancora una volta, Anna vide il suo riflesso. Ma vide anche qualcos’altro che a prima vista non aveva notato.
Profondamente addormentata su una poltrona di velluto rosso accanto al comodino ad uno dei lati del letto, stava sua madre, Rita. Anna le si avvicinò. La cascata di riccioli rossi copriva il volto della donna chino sul mento, rivolto verso un cassettone traboccante di foto che reggeva sulle ginocchia. Anna sbuffò.
 “Mamma!”
Rita alzò il capo di scatto. Per un attimo gli occhi blu intenso cisposi di sonno si fissarono in quelli della figlia, ma parevano non vederla. Poi, come se lentamente l’avesse messa a fuoco, disse: “Ah, sei tu…”
“E chi sennò?” le fece eco Anna, incrociando torva le braccia al petto. “Che cosa fai? Ti sei addormentata?”
“Sì, stavo guardando le foto…Poi la stanchezza”. Rita si profuse in un grande sbadiglio.
“Già, la stanchezza” commentò subito la figlia. “Tu e questa smania di perderti tra i ricordi” e accennò alla montagna di foto che riempiva il cassettone. “Per non parlare poi degli straccioni. Logico che ti stanchi”.
“È bello aiutare chi ne ha bisogno” ribattè la madre in tono di rimprovero, improvvisamente sveglia, posando il cassettone sul letto e alzandosi dalla poltrona.
“Ma tu esageri!” controbattè Anna, infastidita. “Manca poco che ti fai una casa in chiesa. Mamma, ma chi te lo fa fare?”
“A me piace” replicò Rita riponendo il cassettone nello spazio vuoto al centro dell’armadio. “E poi è utile. È bello volere bene agli altri”.
“Anche io voglio bene ai miei amici ma non ci lascio di certo le penne sentendomi una schifezza!”
 Rita si portò una mano al fianco e levò l’altra con aria ammonitrice.
“ Tu non capisci, Anna” disse. “Non puoi capire. ‘Ama il prossimo’. Questo dice la Bibbia. E mi sembra che tu non sappia cosa signi…”
“Va bene, va bene, mi arrendo” tagliò corto Anna. Non poteva sopportare i sermoni di sua madre.
Uscì dalla camera da letto e andò in bagno per sciacquarsi velocemente le mani. “Dove sono papà e Carlo?” domandò.
“Ancora devono tornare” rispose Rita entrando in cucina. “Come è andata oggi a scuola?” s’informò poi.
Anna la seguì.
“Bene”.
La madre le lanciò un’occhiata eloquente, mentre indossava un grembiule a fiori.
“Ho preso quattro in inglese” ammise Anna, incapace di resistere al suo sguardo indagatore. Cercando di assumere un’aria innocente, cominciò a stendere la tovaglia sul tavolo.
Ma Rita era decisa a dar battaglia e, gli occhi ridotti a fessure, si preparava alla sfuriata.
“Insomma, Anna!”sbottò, controllando a stento la rabbia. “Si può sapere cosa diavolo stai combinando?”
“Niente” fece Anna, leggera, prendendo piatti e forchette.
“La scuola è cominciata solo da un mese e già hai portato a casa tre insufficienze” continuò Rita. “Quand’è che ti decidi a studiare, eh?”
Anna si voltò verso la madre. Difficile dire se era lei o la pentola sul fuoco a ribollire di più.
“Io studio” disse tranquilla.
“Ah sì?”. La voce di Rita traboccava sarcasmo. “Come no. Tutte quelle ore a telefono con Stefania. Eh no, Anna. Mi sa che dovremo cambiare musica. Ricordi che l’anno s corso i professori ti hanno promossa per grazia, dandoti fiducia? Bè quest’anno è la volta buona che ti bocciano”
“Oh, mamma, per favooore!” gemette Anna, schiaffando una bottiglia d’acqua al centro del tavolo. Si era pentita amaramente di non essersi impegnata di più nella lotta contro lo sguardo indagatore di sua madre. “La scuola è cominciata solo da un mese. Resta tutto un anno per emettere il verdetto!”
“Non c’entra niente” incalzò Rita (se i capelli avessero potuto portare il segno della sua rabbia sarebbero stati di un rosso più acceso) “Bisogna impegnarsi dall’inizio. La scuola è importante”
“Senti, mamma!” esclamò Anna stufa, lo sguardo torvo fisso su di lei. “Io me ne STRAFREGO della scuola”.
“Non parlarmi così!” la rimproverò Rita, corrugando la fronte.
 “ Non mi interessa della scuola!” riprese Anna, decisa a dar sfogo alla sua rabbia. “Io VOGLIO DIVENTARE UN’ATTRICE,OK? METTITELO BENE IN TESTA! IL BANCO MI STA STRETTO E PER ME NON HA SENSO!”
“Tu sei pazza! “ commentò la madre, scuotendo la testa incredula. “Ti rendi conto di quello che dici?”
“So bene quello che voglio fare, grazie” replicò Anna. “ Di sicuro non voglio fare la tua stessa fine, chiusa tra i ricordi e le porte di una chiesa. No, mamma. La vita che tu insisti tanto a volermi tracciare non mi va a genio”.
Rita era sbiancata violentemente e deglutì un paio di volte.
“C-come osi?” balbettò, affannosa. “C-come…Perché mi dici questo?” Gli occhi azzurri divennero stranamente lucidi. “Insomma, non capisci? Io ti voglio bene”. “Non mi sembra, mamma”.
Le parole erano appena scivolate dalle labbra di Anna, quando la ragazza avvertì un dolore alla guancia destra. La madre, ora, le stava dinanzi, la mano alzata. Anna, stordita, si portò una mano nel punto in cui aveva ricevuto lo schiaffo: sua madre non aveva mai fatto una cosa del genere. Evidentemente anche Rita era rimasta scioccata, perché i suoi occhi vagavano confusi dalla mano alla figlia. Cadde un silenzio nervoso.
“Non ti riconosco più, Anna”.
La rabbia era svanita dalla voce di Rita, lasciando il posto ad una strana tristezza. “Prima non eri così. Mi chiedo dove io e tuo padre abbiamo sbagliato con te”. “
Tu sbagli tutto, tutto!” gridò Anna, scoppiando in lacrime. “TI ODIO! TI ODIO! TI ODIO!”.
E così dicendo superò sua madre e corse via nel corridoio, per poi sbattersi con forza la porta della sua camera alle spalle.   

* * *
Per tutto il pomeriggio, Anna restò tra i mobili rosa pallido della sua stanza, stesa sul letto, apatica, la mente che si arrovellava furiosa attorno alle immagini della lite recente. E più ci pensava, più sentiva la rabbia montarle dentro.
 “Tu sei pazza”, “Non capisci”, “La scuola è importante”.
Era stufa di essere trattata come una bambina inesperta. Lei sapeva cosa doveva fare e nessuno, tantomeno sua madre, doveva intromettersi nella sua vita. Era un essere libero.
Sbuffando, si alzò dal letto e andò alla finestra, fissando, ma senza vederlo, il Vesuvio lontano che torreggiava sugli alti palazzi attorno al condominio dove lei abitava al quarto piano. Era proprio una delle rare belle giornate di sole d’ottobre.  Lanciò un’occhiata alla sveglia sulla scrivania: erano le quattro e mezzo. Avrebbe dovuto studiare una decina di pagine di storia ma non ne aveva voglia. E poi tra un’ora avrebbe dovuto incontrarsi con Stefania, la sua migliore amica.
Sbuffando ancora, aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse una graziosa trousse con tanto di specchio. Era stato un regalo di sua madre, ma cercò di non pensarci e prese subito a passarsi il rossetto sulle labbra sottili. Tuttavia era difficile cercare di ignorare il nervosismo che le vorticava dentro.
Il fatto era che lei, Anna Lorenzi, era un pianeta con un’orbita differente nell’universo della sua casa. I suoi genitori e Carlo non avrebbero potuto essere  più diversi da lei di come lo erano. Matteo e Rita Lorenzi erano giudicati da tutti genitori esemplari, giusti, né troppo severi, né troppo amici. Erano dipinti come l’immagine dei genitori modello che qualunque figlio avrebbe dovuto seguire come guida, guida che non esitava ad aiutare i suoi assistiti  nei momenti di bisogno.
Ma se il piccolo Carlo riconosceva questi segni d’amore, Anna non li vedeva affatto. I due ‘carcerieri’: così aveva soprannominato sua madre e  suo padre. Sempre pronti a farle la morale, a dirle cosa era giusto e cosa non lo era, a vietarle di fare certe cose( “Sei troppo piccola per la discoteca!”). Ma quello che lei non tollerava di più  era la loro, onnipresente idea di Dio e della Chiesa nella loro vita.
I signori Lorenzi erano responsabili dell’oratorio parrocchiale, nonché di alcuni gruppi di beneficenza. Perciò passavano gran parte del loro tempo in parrocchia. Questo Anna poteva anche sopportarlo (più stavano fuori dai piedi, più poteva parlare al telefono in tutta libertà con Stefania). Ma quello che detestava era la loro fissa di rifilare versetti biblici o riflessioni teologiche in ogni avvenimento. Per non parlare poi di quando tornavano dalla messa ogni domenica. Avevano un’aria sollevata, quasi nuova, come se il loro Dio gli avesse dato un talismano per affrontare la vita di tutti i giorni.
Che stupidaggini! La vita si affrontava nella concretezza, non imbevendosi di idee e figure astratte che magari non esistevano neanche. Ah, com’era contenta lei di essersi sottratta all’illusione di una vita governata da un Dio buono in cui stava per cadere da piccola!  Suo fratello Carlo seguiva il ‘modus vivendi’ dei genitori, ma secondo lei avrebbe  capito prima o poi. Forse era ancora troppo piccolo. Sì, Anna era proprio contenta di non essere come tutti loro. Non aveva bisogno di Dio, perché semplicemente non esisteva o, per meglio dire, non si curava affatto degli uomini. Stava bene così, con la sua vita. E poi se Dio fosse stato buono come dicevano, non ci sarebbe stato il dolore, la morte…
TOC TOC
“Non ci sono!” fece Anna in risposta alla bussata. “Non disturbate. Sto studiando” aggiunse poi chiudendo di scatto la trousse  e prendendo, così velocemente come se  l’avesse fatto comparire dal nulla, il suo libro di storia e lo aprì di malagrazia. Ma nonostante l’esplicito divieto, la porta della stanza si aprì.
“Grazie per il gentile benvenuto” disse sorridendo un uomo alto e magro, dai corti capelli castani e dai lucenti occhi verdi che brillavano dietro gli occhiali sottili. “Papà, se sei venuto pure tu a rompermi l’anima, allora sei pregato di andartene” disse Anna, mentre il padre si chiudeva la porta alle spalle. Ci mancava anche la predica di suo padre che, tornato a casa dopo la sua ‘reclusione’ in camera, aveva saputo dell’accaduto.
“Non voglio rompere niente a nessuno” scherzò Matteo Lorenzi, sedendosi sul letto di fronte alla scrivania. “Anzi. Voglio costruire qualcosa”.
“Il cantiere è chiuso” replicò Anna, in un atono tentativo di essere spiritosa.
 “No, no. Sono sicuro che è aperto”.
“Papà, che vuoi?” sbottò Anna, chiudendo il libro di scatto e fissando gli occhi verdi in quelli dello stesso colore del padre.
 Matteo le ricambiò l’occhiata.
“Tua madre mi ha detto della vostra lite” disse poi.
“Dai, avanti! Spara!” sibilò Anna. “ Dimmi che ho sbagliato, che sono una figlia ingrata, una ragazzina…”
“Non ho intenzione di dirti nulla di tutto questo” la interrupe il padre, tranquillo. “Voglio solo sapere perché ti stai comportando così ultimamente”. Qui aleggiò una nota di preoccupazione nella voce.
“Non mi sto comportando in nessun modo ‘così’ ” ribattè Anna acida, chiudendo con rabbia il suo libro e prendendo di nuovo la trousse.
“Certo che ti sei rivolta in modo molto forte alla mamma”.
“Papà, ma io mi incazzo! Non ne posso più!”
“Noi ti vogliamo bene”.
Anna alzò gli occhi al cielo, il pennello del fard in mano. La scocciava quella risposta banale sempre pronta a giustificare qualsiasi azione restrittiva dei genitori.
“Volere bene non significa però rendere la vita imposibile” osservò. “Voi mi state col fiato sul collo”.
Matteo scosse lievemente la testa, un sorriso che gli increspava le labbra. “Adolescenti” mormorò poi, quasi tra sé e sé.
“Sono una donna, io” lo riprese la figlia.
“Una donna molto impulsiva però” controbattè Matteo, gli occhi stretti in una lieve aria di rimprovero. “Sempre pronta a scoppiare per qualsiasi cosa, a non riflettere mai prima di aprire bocca. Sai, le parole possono fare più male di quanto si pensi”.
“Ti stai riferendo al mio ‘ti odio’?” fece Anna con aria di sfida. 
“Non sono cose da dire a nessuno, Anna” replicò Matteo. “A nessuno. Tantomeno alla donna che ti ha dato la vita”.
“Oh, Pà, non fare il filosofo!”
“Invece lo faccio”.
Anna si voltò di nuovo  a fissarlo e notò l’aria dura e determinata dipinta sul volto, scolpita negli occhi. Un’aria che non aveva mai visto.
“Oggi nessuno pensa  a queste cose” riprese Matteo, sempre con quella sua voce forte e sicura. “ Nessuno pensa al valore dei genitori e che se questi non ci fossero, non ci sarebbe la vita. Nessuno pensa che essere madre o padre è il mestiere più difficile. Oh, Anna. Se tutti dessero il giusto valore a queste due figure, il mondo sarebbe diverso” e qui la sua voce divenne quasi un sussurro addolorato. “I figli si ribellano, fanno di testa loro, rinnegano la famiglia…”
“Stai forse dicendo che io non capisco, che non apprezzo, che non sono una brava figlia?” si infastidì Anna. Detestava quando gli altri le puntavano il dito contro. Matteo si alzò dal letto.
“Ti ho già detto che non ho intenzione di farlo” rispose. “Ma lascio a te il progetto di costruzione. Sei tu che devi lavorare. Medita”. Così dicendo fece per andarsene. “Però per la mamma va bene, eh?” saltò su Anna. “Per lei va bene prendermi a schiaffi e abolire il dialogo!”.
Matteo le riservò un’occhiata comprensiva.
“Non ti chiedi mai perché la mamma si perde spesso tra i ricordi?”
Anna restò spiazzata da quella domanda.
“Se lo sapessi “ concluse il padre, “non parleresti così e capiresti”.
E poi, aperta la porta, se ne andò lasciandola sola.

























2.

 
“Dove vai?”
“Esco con Stefania, Carlo”.
Carlo aveva lasciato i suoi giochi per fiondarsi in corridoio, mentre Anna indossava la giacca. Era un bambino grazioso, con i capelli castano scuro e gli stessi occhi azzurri di Rita.
“Dopo non è che potresti aiutarmi con una ricerca?” domandò il bambino.
“No” rispose Anna, secca.
Carlo si immusonì, mentre osservava la sorella marciare fino allo specchio in fondo al corridoio. Anna lo vide riflesso nel vetro.
“Oh, Carlo, non fare storie” si lagnò stizzita. “Ci manchi solo tu oggi”.
“Hai litigato di nuovo con la mamma, vero?” commentò subito Carlo.
“Non mi va di parlarne”.
“Mai una volta che state in pace” incalzò il bambino. “Sempre a urlarvi contro come streghe. Perché non la piantate? E perché tu non studi?”
“Carlo, fuori dai piedi!”
Anna lo spinse da parte e si avvicinò alla porta d’ingresso. La testa di Rita si affacciò dalla cucina.
“Torna presto” disse con voce atona.
Anna la ignorò. Si chiuse la porta alle spalle e chiamò l’ascensore.
“Anna!”
Carlo aveva aperto la porta ed era spuntato sul pianerottolo.
“Torna presto, davvero” disse ansioso. “Non fare stare in pensiero la mamma. Fallo per me”.
“Ok, ok” tagliò corto Anna, annoiata.
L’ascensore arrivò e prima che le porte si chiudessero dietro di lei, potè vedere ancora il volto di  Carlo, dipinto da quella che sembrava un’indecifrabile espressione di dispiacere. 

* * *

“Vedrai che gli passerà. Lasciali sbollire”.
“Non ne posso più. Sempre pronti a sbraitare. Tutta colpa di quella stronza della professoressa Morante. Vorrebbero una figlia come quella secchiona di Donati”. Eloisa Morante era la professoressa di inglese di Anna; Martina Donati era la più brava della classe.
“Bè, tutti i genitori sono così, Anna”.
Stefania De Simone, la sua migliore amica, le era solidale. Solidale quel poco che bastava per placare la sua stizza. Ormai la conosceva così bene che sapeva come domarla e farla ritornare in sé. E forse Anna questo lo aveva capito, perché negli occhi chiari della compagna, in quel volto incorniciato da lisci capelli castani, leggeva la soluzione ai suoi ‘attacchi rabbiosi’, come li chiamava lei. Era l’unica persona che non le era mai contro, ma era sempre pronta ad aiutarla e dirle che tutto, di qualunque cosa si trattasse, prima o poi sarebbe passato.
Con Stefania la vita era tutta un’altra cosa! Le fumatine segrete nei bagni della scuola, i pettegolezzi su amiche e corteggiatori, i loro pomeriggi al “ Cafè della Primavera”, il locale dove si incontravano. Anche quel pomeriggio erano sedute lì, al solito tavolino.
“Non fartene un problema” disse Stefania giocherellando con la cannuccia del suo succo di frutta. “I genitori sono fatti così. Non cambieranno mai”.
“ Oh,no, è meglio che cambino” replicò subito Anna, addentando il suo tramezzino con voracità ( la fame si faceva sentire dopo il pomeriggio di’astinenza forzata’), inorridita al pensiero che ciò che l’amica avesse detto fosse vero. “ Se non cambiano, me ne vado a vivere in un altro posto”.
“Oh, cielo!” esclamò Stefania divertita. “Anna, devi essere proprio disperata per pensare di fare una cosa del genere”.
“Sì”.
“ E dove te ne andresti?” continuò Stefania, maliziosa.
Il volto di Anna si trasfigurò immediatamente. Un’aria sognante e beata lo prese tutto.
“Andrei dal mio Mirko” sospirò poi la ragazza, poggiando la testa su una mano, lo sguardo perso nel vuoto.
Stefania rise così forte che gli altri pochi avventori seduti ai tavolini si voltarono al suo indirizzo.
“Anna, sei proprio cotta! Oddiooo! No, è troppo bella questa”.
“Piantala” si lagnò Anna, contrariata. “Io lo amo”.
Stefania smise a fatica di ridere, gli occhi fissi sull’amica.
“Devi vederti la faccia che fai quando parli di lui” disse tra i singhiozzi che ora le avevano preso la voce. “Davvero! Sembri un baccalà”.
“Per il mio amore sono disposta ad interpretare anche il ruolo del baccalà” ribattè Anna divertita, in tono altero. “ D’altronde una brava attrice come me non ha problemi a passare da un ruolo all’altro. Lo diceva sempre Lina”.
Lina era l’insegnate della scuola di recitazione da cui i suoi genitori l’avevano ritirata dopo il mediocre anno scolastico scorso.
“Non ha neanche problemi ad affrontare i ‘polipi’ che vogliono annidarsi sul palcoscenico?” le disse Stefania, accennado con lo sguardo a  qualcosa alle sue spalle  
Anna si voltò di scatto e  diede in un basso gemito sofferente.
‘Il Cafè della Primavera’ era un bel locale con il suo lucido pavimento di marmo, i tavolini di mogano ben ordinati, la buona musica della radio che vibrava assieme al chiacchiericcio dei clienti. Eppure c’era una sola cosa che Anna odiava di quel posto: quel locale era frequentato da Guido, un ragazzo che aveva finito il liceo l’anno prima, un bruttone che le aveva messo gli occhi addosso e non la lasciava mai in pace. L’unica cosa buona che aveva, secondo Anna, era la patente.
Quando la ragazza vide il volto brufoloso del ragazzo, con i suoi grandi e orrendi occhiali rettangolari e i ricci capelli neri, pensò subito alla fuga dal locale, ma Stefania la avvertì con un’occhiata che era meglio non muoversi perché il ragazzo stava venendo verso di loro.
“Ciao” le salutò Guido quando si avvicinò.
“Ciao, Guido!” gli fece in risposta Stefania con un sorriso.
Anna si limitò a fargli un cenno della mano con aria antipatica.
“Posso sedermi?”
“Si, prego, prego” disse Stefania zuccherosa, spostando la borsa dalla sedia per fargli posto e ignorando l’occhiata torva che le rivolse Anna.
Occhiata che probabilmente Guido notò, perché rivolto verso Anna disse: “ Sempre se non vi dispiace”.
Anna moriva dalla voglia di dirgli di sì, ma si limitò a  rispondere con lodevole affettazione di cortesia: “Certo che no”.
Guido si sedette con aria imbarazzata.
“Allora? Cosa ci racconti, Guido?” domandò Stefania, sorseggiando un altro po’ del suo succo di frutta.
 “Niente di che” rispose il ragazzo. “Solite cose. All’ Università la Medicina mi strapazza come sempre”.
“Che palloso!” pensò Anna. “Il mio Mirko ha sempre cose entusiasmanti da raccontarmi”.
“E voi?” chiese poi Guido spostando lo sguardo da Stefania a Anna( questa represse un brivido quando si trovò quegli occhiali rettangolari davanti). “Come state?” “Molto bene” rispose Anna con finto entusiasmo. “Stavo aspettando Mirko per andare un po’ in giro”.
Dall’altro lato del tavolo Stefania si accigliò e le lanciò uno sguardo sorpreso.
Dal canto suo, Guido mise su una strana espressione. “Capisco”disse con voce fioca. “Salutami tanto Mirko. È da quando ho lasciato la scuola dopo il diploma che non lo vedo” Poi si alzò.
“Gia te ne vai?” fece Anna, alzando la testa così di scatto che il codino ondeggiò e sperando che Guido le rispondesse di sì.
“Si”. (Anna non fu abile nel nascondere un sorriso di vittoria). “Comunque” continuò Guido con voce piatta voltandosi di nuovo verso Stefania, “volevo dirvi che il 31, Rossi dà una festa di Halloween”.
“Davvero?” saltò su Anna.
Rossi era un ragazzo che si era diplomato l’anno prima, molto amico di Mirko. 
“Mi ha dettto di invitare anche voi del terzo anno assieme a qualcuno della 4G”. 4G…la classe di Mirko! Rossi aveva invitato lei…e avrebbe invitato anche Mirko! “Grazie per avercelo detto” disse Stefania in tono dolce.
“Sì, grazie davvero” s’intromise Anna che già pregustava la serata con Mirko.
“Di niente” fece Guido, immusonito. E con un ultimo cenno della mano se ne andò.. “Sei stata una strega, Anna!” esclamò Stefania senza giri di parole quando Guido fu uscito dal locale. “Perché hai inventato la balla dell’uscita con Mirko? Guido si è sentito una merda!”
“Ma non è una balla” sorrise Anna, maliziosa, estraendo il cellulare dalla borsa e  premendone freneticamente i tasti. “Gli sto giusto inviando un messaggio per dirgli di raggiungermi”
“Ma, Anna, Guido ci è rimasto male!”
“Non hai detto anche tu che è un bruttone?” le fece Anna, torva.
“Bè, sì” rispose Stefania, imbarazzata. “Ma è pur sempre una persona, non un animale”.
“In amore tutto è dovuto, mia cara” controbattè Anna. “Non avevo tempo da perdere con lui. Ma ha fatto bene a  venire. Mi ha dato una bellissima notizia, nonché l’ennesima occasione per poter stare con Mirko”. Fremette di emozione. “Devo assolutamente pensare a cosa mettermi”.
E subito si lanciò nella lista di indumenti del suo guardaroba. Stefania la ascoltava pensosa e  perplessa.
“Tu verrai?” chiese poi Anna all’amica quasi venti minuti dopo.
“Sì. Penso di sì”.
“Bene! Sarà una serata memorabile”.
“Sicuro. Se verrai alla festa con me”.
Anna scattò subito in piedi, come se la sedia fosse stata attraversata dalla corrente elettrica.
Se i capelli castani di Stefania presentvano a tratti riflessi biondi, quelli di Mirko erano oro colato che brillava assieme all’azzurro degli occhi e al bianco sfavillante della dentatura regolare.
“Sei stato velocissimo!” commentò Anna, gettandosi letteralmente al suo collo. Stefania abbassò lo sguardo, fingendosi improvvisamente concentrata sulle sue unghie.
“Sì” rispose Mirko. “Sono sempre scattante quando si tratta di vedere te”.
Anna avvampò di euforico entusiasmo. “Mi fa molto piacere!” esclamò leziosa. “Allora” aggiunse poi, “posso già considerami la tua dama per la festa di sabato 31?”
“Certo, mia bella principessa”.
“Oh, come sei dolce”.
“Tu lo sei più di me”.
“Hem, hem”. Stefania tossicchiò (forse per dissimulare una risatina). “Scusate se vi interrompo ma ora io dovrei andare” e lanciò un’ochiata eloquente ad Anna.
“Ci sentiamo dopo, allora” disse questa radiosa, ringraziando in cuor suo l’amica che le permetteva di stare sola col suo ‘amato’.
“OK. Ciao, Mirko”.
“ Ciao, Stef!” salutò allegramente il ragazzo.
E anche Stefania lasciò la scena.
“ Siamo rimasti soli, allora” commentò Anna, sorridendo a Mirko.
“Soli col nostro piccolo mondo fatato” le fece Mirko in risposta. Anna sorrise raggiante e gli prese un braccio, mettendosi la borsa in spalla.
“E allora mi accompagni, dolce cavaliere” disse poi. “Come del resto è chiamato a  fare la sera del 31”.
“Ai suoi ordini, madame”. E i  due ragazzi uscirono alla luce del sole di pomeriggio.  


3.

“Fai la figlia acqua e sapone, dolce, servizievole. Inginocchiati, se necessario”
“E’ inutile. Non ci cascano”
“Provaci! Non puoi lasciarti sfuggire un’occasione del genere, Anna!”
“Lo so, Stef. Lo so”.
La mattina seguente, Anna era totalmente depressa. La sera prima c’era stata l’ennesima sgolata con i suoi. Non aveva neanche finito di dire: “Sabato, Rossi dà una festa”, che sua madre, lo sguardo omicida, aveva emesso un secco “No”. E poi si era intromesso suo padre che aveva obiettato un freddo ”Se costruisci bene, allora ti pagheremo.Ora non mi sembra il caso”.
Anna gli aveva gridato contro, giurato e spregiurato che avrebbe fatto la brava, ma non era servito a nulla. E se aveva sperato di trovare almeno in Carlo qualcuno che avrebbe spezzato una lancia in suo favore, si era sbagliata di grosso.
Carlo era rimasto muto come un pesce. Che canaglia! Parlava solo quando non doveva!
Depressione, umore sottoterra...quella giornata non si prospettava un granchè . L’aria tetra, entrò in classe senza salutare nessuno e andò a sedersi al suo ultimo banco. Stefania si fece scivolare sulla sedia accanto, comprensiva.
“Capitano tutte a me!” si lagnò Anna, le braccia incrociate. “Sempre! Uffa, ora che io e Mirko potevamo stare assieme...”. 
“Si troverà un rimedio” la rassicurò Stefania. “Vedrai che qualcosa si può fare”. “Buongiorno”.
“Buongiorno” risuonò nell’aula.
Anna e Stefania tacquero. La professoressa d’inglese, Eloisa Morante, era entrata in classe.
“Bel modo di cominciare una giornata che è già una merda” soffiò Anna all’orecchio di Stefania.
Eloisa Morante era una donna graziosa, con i capelli biondo scuro legati in una lunga treccia e chiari occhi a mandorla, in quel momento gonfi e arrossati.
“Ehi, guardate gli occhi!” sussurrò ad Anna e Stefania Elvira, la ragazza occhialuta che gli sedeva davanti. “Avete visto? Sembra che abbia pianto”.
Anna e Stefania convennero con lei. La professoressa Morante aveva un’aria più scura mentre prendeva posto dietro la cattedra e apriva il registro. Evidentemente anche gli altri compagni lo avevano notato, perchè Anna li vide borbottare tra loro. “Così com’è incavolata sicuramente farà a pezzi chi interroga” bisbigliò di nuovo Anna all’indirizzo di Stefania.
“Oh, non dirlo!” rabbrividì l’amica, sfogliando con aria affannosa e febbrile il libro d’inglese, mentre la professoressa faceva l’appello. “Io non ho studiato!”
Anche se aveva preso quattro, Anna era contenta di essere già stata chiamata alla cattedra. Almeno lei era al sicuro.
“Donati”.
Una ragazza al primo banco (dove sedeva sola) dal  volto pallido punteggiato da qualche brufolo e con i capelli disordinati tenuti da un fermaglio blu, si alzò.
“Uff!” sbuffò Anna. “Quella secchiona!”.
Martina Donati: la più brava e, inutile dirlo, la più odiata della classe. Anna vide le sue compagne sedute davanti tirare sospiri di sollievo. I ragazzi dall’altra parte della fila si scambiarono occhiate come a voler dire “Che palle!” o ridevano maligni fissando Martina, che, arrivata alla cattedra, abbassò lo sguardo.
“Bene, Donati” esordì la Morante. “Traduci: “Se avessi comprato più dolci, tutti avrebbero potuto mangiarli”.
Martina prese il gesso e in cinque secondi la frase già luccicava alla lavagna.
“Bene” commentò la professoressa dopo una rapida occhiata. Dettò altre frasi che Martina  tradusse sempre correttamente. Stefania era meravigliata per quella bravura. “Beata lei...” sospirava.
Anna era semplicemente infastidita, come se anche Martina stesse contribuendo a farle montare ancor di più la rabbia che covava dentro.
“Brava, Martina” sorrise la Morante dopo un pò, ma l’aria scura non scomparve. “Mi parli adesso di Shakespeare e della sua concezione dell’amore in Romeo e Giulietta?” Spedita, Martina cominciò ad esporre in inglese la lezione e aveva un’aria quasi estatica sul volto, diversa dall’aria grigia che di solito si portava dietro.
“Prova piacere mentre parla di Skakespeare!” gemette Anna, in modo che solo Stefania potesse sentirla. “Oh, cielo!”
Molto tempo dopo la Morante interruppe Martina e le chiese: “Ti è piaciuto questo argomento, vero?”.
 “Sì’” rispose Martina. “L’amore è sempre bello, potente e sconvolge tutto...persino la morte”
“Chissà se lo troverai mai, l’amore” fece Anna in un bisbiglio ben udibile.
I ragazzi scoppiarono a ridere gongolanti. Alcune ragazze si lasciarono andare a dei timidi sorrisi. Martina abbassò di nuovo lo sguardo, arrossendo.
“Silenzio!” tuonò la Morante battendo una mano sulla cattedra. “Lorenzi, vieni qui!” “Perchè?” sbottò Anna, senza trattenersi. Voleva tanto sfogare la sua rabbia! Stefania le diede un calcio da sotto il banco.
“Vieni qui!” ripetè la professoressa.
Anna si alzò, avanzando lungo la fila di banchi. I compagni assistevano alla scena in silenzio.
“Bene” disse la Morante. “Chiedi scusa alla tua amica”.
“Amica?” ripetè Anna accigliata in tono di sfida.
“Sì” ribattè secca la professoressa. “Chiedile scusa”.
Anna portò lo sguardo su un’imbarazzatissima Martina.
“Non fa niente” borbottò questa. “Non fa niente, professoressa”.
“No, no”. La Morante scosse la testa. “La tua amica deve chiederti scusa”.
“Non accetto le scuse solo perchè le fa quando glielo chiede Lei” gridò Martina all’improvviso, scoppiando in lacrime. Poi spalancò la porta e corse via dalla classe. “Martina!” la chiamò la Morante.
La classe era piombata in un attonito silenzio. Anna restò impalata. Era la prima volta che Martina si comportava così.
“Mi fai pietà”.
La Morante ora fissava lei.
“Scusi?” fece Anna, come se non avesse capito.
“Mi fai pietà” ripetè la professoressa. “Non capisci niente. Non capite niente!” gridò poi rivolta alla classe. “Basta essere un pò diversi, più sensibili del normale e si è tagliati fuori? Ma che razza di mondo è questo? Che razza di persone siete?”.
I ragazzi si erano ficcati un pugno in bocca per non ridere. Stefania sembrava sconvolta e quasi dispiaciuta. Anna, invece, era arrabbiata.. Come osava quella donna parlarle così!
“Vi dico che sono orgogliosa di dare dieci alla vostra amica” continuò la Morante. “Sì, dieci! Perchè è ottima sia come studente che come essere umano”.
“Perchè è una lecchina, vuole dire” intervenne un ragazzo.
“Ti sei beccato un due, Laezza” tuonò la Morante rivolta a lui. “Quanto a te” aggiunse poi voltandosi di nuovo verso Anna (il ragazzo fece un gestaccio alle sue spalle), da oggi in poi sarai la compagna di banco di Martina e farai di tutto per esserle amica, chiaro?”
“No, non può!” protestò Anna, allibita.
“Non sei tu a decidere le regole” sbottò la Morante. “Quindi Martina starà seduta accanto a te”
“Ma...”
“Basta le apparenze!” esclamò con voce acuta la professoressa. “Basta! Amate! Amatevi! Potreste pentirvi se non lo fate!”
E con queste parole fece cenno ad Anna di occupare il banco accanto a quello di Martina.